Sin dalle battute iniziali di “Blacknuss”, con il basso di Bill Salter ed il flauto di Kirk che suonano “Ain’t No Sunshine” di Bill Withers, è chiaro che questo non è un normale album di Kirk, ammesso e non concesso che ne abbia mai registrati di dischi normali.
Mentre la sezione degli archi, il piano elettrico, le percussioni e la chitarra di Cornel Dupree entrano dalla porta sul retro, si può sentire il profondo groove soul che Kirk sta portando in primo piano. Mentre la melodia svanisce appena due minuti e mezzo dopo, l’urlo del sax tenore di Kirk arriva lamentoso attraverso l’intro di “What’s Goin’ On” di Marvin Gaye, con uno sfondo funk e nessuna ironia: è serio.
Con la batteria di Richard Tee che crea il ritmo, gli archi che si sviluppano in un muro di tensione nel mix di sottofondo e la tromba di Charles McGhee, tutto può succedere come in “Mercy Mercy Me”.
Quando i musicisti raggiungono la fine di “I Love You, Yes I Do” di Ronald Isley, con i fischietti, i gong, le urla, il canto dall’anima, il groove profondo ed il funk grasso che cola da ogni nota, il disco potrebbe tranquillamente concludersi perché chi ascolta si è già arreso ed invece non sono trascorsi che solo dieci minuti! “Blacknuss”, come “The Inflated Tear”, “Volunteered Slavery”, “Rip, Rig And Panic” e “I Talk To The Spirits”, sono gli album più visionari di Roland Kirk, un artista che è stato capace trasformare il pop in Great Black Music.
Ha fatto scendere il jazz dal suo Olimpo per avvicinarlo alle sue radici popolari e così facendo ha creato grande jazz da brani pop, proprio come fecero alcuni suoi eccellenti predecessori con i brani degli spettacoli di Broadway.
Altri momenti salienti di “Blacknuss” sono una lettura profondamente commovente di “My Girl” ed una versione strepitosa di “The Old Rugged Cross”.
Signore e signori, “Blacknuss” ha la profondità di un disco soul e la passione di un disco jazz.
Davvero un album da non perdere!